«Volevo parlare della vita, cosa c’è di più universale?»

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Ha 77 anni il fotografo ceco Josef Koudelka e non si è ancora fermato ed è grazie a questo popolo di nomadi che ha iniziato a fare il fotografo. Sono proprio gli zingari e le loro tradizioni che decide di fotografare nel suo primo progetto, quando il lavoro di fotografo teatrale non gli basta più.  Nel 1967 la prima mostra, dopo cinque anni passati a camminare con loro, in una Cecoslovacchia in cui parlare dei gitani era ancora proibito. Il suo, con questa gente, è un legame positivo, nato in lui da bambino ad un festival musicale, legato ad un’idea gioiosa e rumorosa di questo popolo, lontano dai pregiudizi che il suo paese aveva di loro. 
Passerà più di dieci anni a fotografarli e sarà questo progetto a permettergli di uscire dal paese: Koudelka fotografa l’invasione sovietica di Praga dell’agosto ‘68, letteralmente in mezzo alla strada, con occhi da cittadino incredulo e consapevole dell’unicità di quel momento. Quegli scatti fanno il giro del mondo in pochissimo tempo, escono dal paese tramite l’agenzia Magnum e finiscono sulla copertina del Sunday Times in forma anonima per timore delle ripercussioni sulla famiglia del fotografo. 
Nel 1969 “l’anonimo fotografo praghese” vince il premio Capa e viene invitato a volare a New York, ma è solo una borsa di studio per fotografare i gitani in Camargue che gli permette di lasciare la Repubblica Ceca dove non rientrerà per i successivi vent’anni. Un episodio buffo lo introduce tra i suoi celebri colleghi: da Parigi vola a Londra, per l’inaugurazione di una mostra organizzata da Cornell Capa, si accoda al gruppo di fotografi a cena e viene bloccato all’ingresso perché vestito in modo inadeguato. Un uomo si alza dalla tavola e decide per solidarietà di spostare la festa altrove: quell’uomo era Henri Cartier-Bresson e da quel momento sarà uno dei maggiori estimatori di Koudelka.

Su questo vecchio fotografo si raccontano molte storie: a proposito del suo estremo perfezionismo, del lavoro minuzioso fatto su ogni provino di scatto, del tempo infinito trascorso in camera oscura prima di ogni stampa. Di sé Koudelka parla come di una persona normale, che deve il suo successo, neppure ricercato, a suo dire, al lavoro, alla dedizione e alla fatica, a nessuna dote innata, alla scomodità dei suoi viaggi, agli alloggi fortuiti e le notti in sacco a pelo, alla solitudine del mestiere di fotoreporter, alla decisione mai mutata di non accettare lavori commissionati e scegliere, scegliere e scegliere. Scegliere di scattare con un grandangolo per avvicinarsi alle persone, scegliere di tornare molto spesso negli stessi luoghi, in viaggi “ciclici”, per recuperare uno scatto non riuscito la volta precedente, per ritrarre di nuovo un volto sfuggito in qualche suo sfumatura al primo passaggio.

Per Josef Koudelka quello che conta è il lavoro, l’attenzione nello scatto, l’intensità con la quale vive il suo mestiere, la selezione attenta ed esigente di una buona foto e nient’altro – con le foto degli Zingari ci vivevo sempre. Se vivi sempre con una cosa e continui a guardarla, finisci sia per stancartene, sia per esser certo che ti soddisfa. Per me una buona foto è una con cui posso vivere. È come vivere con una musica o una persona”

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