Gli ultimi mesi del 2020 hanno riaperto l’annosa ferita del Nagorno Karabakh. Gli scontri nati alla fine dell’Ottocento e durati lungo tutto il Novecento, si sono riproposti nel 2016 e, successivamente, oggigiorno
Gli ultimi mesi del 2020 hanno riaperto l’annosa ferita del Nagorno Karabakh. Gli scontri nati alla fine dell’Ottocento e durati lungo tutto il Novecento, si sono riproposti nel 2016 e, successivamente, oggigiorno. Letteralmente “Giardino nero” da Karabakh, parola di origine armena e “montuoso” da Nagorno, parola di origine russa, il Nagorno Karabakh è una terra di mezzo tra Armenia ed Azerbaijan. Si trova, perciò, sul Caucaso, nell’altopiano armeno ed è una regione ricca di gas e petrolio.
Comunemente identificata come Repubblica di Artsakh, nata nel 1991, precedentemente era nota come Oblast’ Autonoma del Nagorno Karabakh, oblast (regione o provincia), appunto, dell’Unione Sovietica all’interno della Repubblica Socialista Sovietica Transcaucasica (Georgia, Armenia, Azerbaijan), e successivamente inglobata nella Repubblica Socialista Sovietica Armena. La divisione di questi territori non è sempre stata netta e non lo è ancora. Infatti, le cause dell’eterna lotta tra questi territori hanno radici antichissime ravvisabili già dal XVIII e XIX secolo, quando la Russia estese i suoi domini nella regione Transcaucasica attraverso guerre con l’Impero ottomano e persiano. Nel 1800 – 1801, dopo un protettorato che si era esteso dal 1783, l’impero zarista aveva annesso la Georgia orientale, che faceva capo all’Impero persiano. La guerra russo – persiana, iniziata nel 1804 e finita nel 1813 si concluse con l’annessione, formalizzata dal trattato di Golestan prima e da quello di Turkmanchay poi, di Baku e quindi dell’Azerbaijan da parte dell’impero zarista, il quale si aggiudicò anche le province armene di Erevan e Nahicevan per espellere definitivamente i persiani dalla Transcaucasica. Tutto ciò era stato portato a termine con determinazione dalla Russia per le ingenti ricchezze presenti in questi territori. Lo sfruttamento dei bacini petroliferi fece gola non solo ai russi, ma anche ai fratelli svedesi Nobel e all’americano Rockefeller.
Fino a qualche mese fa la Repubblica di Artsakh, che aveva come capitale Stepanakert, non includeva tutta la regione del Nagorno. Ciò che divideva Artsakh dal resto del territorio del Nagorno Karabakh era un confine naturale, il corridoio di Laçin, che separava l’enclave armena dalla repubblica di Artsakh, abitata da popolazione di etnia armena. I conflitti, dal 1991, non si sono mai spenti. Il fuoco è sempre stato vivo tra Armenia, Artsakh e Azerbaijan. Gli ultimi scontri si erano verificati nel 2016 senza, però, creare eccessivi scompigli nelle regioni o importanti cambiamenti di confini. Il 27 settembre 2020, quando nessuno se lo aspettava e quando il mondo non era attento a questa parte di mondo, le bombe sono tornate a scoppiare. L’Azerbaijan torna a colpire il Nagorno Karabakh per prendersi il territorio con la forza grazie a velivoli turco – israeliani. All’inizio di novembre le truppe azere assalgono la cittadella di Shusha, sotto il controllo armeno, scalando pendii boscosi e poi combattendo nelle strade della città. Il 9 novembre era chiaro che un grande conflitto sarebbe stato imminente. La Russia, uno dei paesi mediatori, che poco prima aveva cercato di scongiurare un cessate il fuoco, veniva coinvolta attivamente dall’Azerbaijan che accidentalmente colpisce un elicottero russo sperando inizi a partecipare attivamente al conflitto. Da questo attacco Putin decide di dare un ultimatum ad Aliyev, presidente azero: se dopo aver preso Shusha Baku non si ritira, la Russia interverrà militarmente. «Questa volta non so come finirà, perché non ci sono esempi nel passato di una Russia che ha agito come mediatore e rappacificatore nel Caucaso. Sono molto preoccupato per come andrà a finire», ha affermato Azad Isazade, il quale lavorò per il ministero della difesa azero negli anni ’90. Farid Shafiyev, diplomatico e direttore del Centro di Analisi delle Relazioni Internazionali di Baku, era invece convinto che la Russia avrebbe mediato.
Nonostante questo conflitto sembri essere nulla di nuovo, tutto rimane inerme e non accenna a mutare. Anton Troianovski, corrispondente da Stepanakert per il New York Times, in un articolo riporta le parole di Nver Mikaelyan, albergatore della capitale, che ad una settimana dalla fine del conflitto si sfoga, guardando ancora una volta una porta ormai completamente staccata dal muro del suo hotel: «Cosa deve succedere ancora? L’unione europea non sta facendo nulla. Gli americani non stanno facendo nulla». Un altro testimone intervistato da Troianovski, Vladik Khachatryan, di etnia armena afferma «Molto presto prenderò il passaporto russo. Non saremmo potuti sopravvivere senza l’aiuto russo». Nel Nagorno non ci sono solo armeni. In alcuni luoghi del territorio sono presenti anche azeri che, negli scontri degli anni ’90, sono stati decimati: sono caduti in circa 20 000 e molti altri sono emigrati lasciando il distretto di Kelbajar. Per questo motivo gli scontri non nascono solo per interessi economici, ma anche per ragioni etniche. Sono molti gli azeri che con la divisione dei territori nel tempo, si sono trovati dalla parte sbagliata del confine. “Il desiderio dell’Azerbaijan di veder tornare parte della sua popolazione che era stata cacciata da casa, è diventato la forza motrice della sua politica”, scrivono Anton Troianovski e Carlotta Gall, ed aggiungono che molti azeri hanno confessato di essersi commossi quando il presidente Aliyev annunciò la presa di Shusha. «Abbiamo smesso di desiderarlo e finalmente abbiamo smesso di vivere questi brutti momenti. Quando sei un profugo e desideri quel posto in cui non puoi andare, quel determinato luogo diventa più di una pietra o una montagna, diventa come una persona amata. La vuoi baciare, vuoi sdraiarti per terra accanto a lei e sentire l’energia che proviene dalla terra», racconta Teymur Haciyev ai reporter del New York Times. Claudio Locatelli, giornalista freelance italiano, che aveva già combattuto nel movimento delle YPG (in italiano Unità di Protezione Popolare) in Siria contro l’Isis, ha deciso di documentare l’intero conflitto sulla sua pagina Facebook. Locatelli ha intervistato in diretta Facebook alcuni militari armeni, ma anche numerosi civili di origine armena ed ha ripreso diversi abitanti della Repubblica di Artsakh bruciare le loro case o le loro attività pur di non lasciarle nelle mani dei nemici. Cercando di capire i pensieri di questo oramai ex abitante, Il giornalista italiano scrive così “L’abbiamo incrociato mentre con le lacrime agli occhi bruciava il suo stesso chiosco. «Stavo ampliando l’attività, vedi lì a sinistra…ed ora lascio tutto», ci racconta, mentre un camion carico di bagagli lo raggiunge. «Ho costruito questo negozio con le mie mani e con le mie mani decido di bruciarlo. È doloroso».” Ed ancora Mihran Harutyunyan, campione della nazionale armena di lotta greco-romana, confida a Claudio Locatelli durante le esplosioni del 10 novembre 2020 a Stepanakert «Dovevo essere qui, con i miei fratelli, per difendere la terra ed il popolo di Artsakh. Ora è molto dura, abbiamo perso troppo, ma non voglio perdermi d’animo, non voglio».
Il conflitto si è chiuso con l’annessione all’Azerbaijan di gran parte del territorio del Nagorno Karabakh. Migliaia di persone, improvvisamente, hanno dovuto abbondonare le proprie case, la propria città senza alcun avviso, per sempre, ed altri sono potuti finalmente tornare a casa propria. È questo il fil rouge che lega tutti i paesi dell’Europa orientale e del Medio Oriente. Il solito copione che non cambia e che, molto probabilmente, non cesserà di essere sempre lo stesso proprio adesso. Etnie che non riescono a convivere nello stesso territorio, persone che vengono strappate dai propri luoghi natii, confini mal disegnati, violenze perpetuate e nostalgia di casa. Eretico chi sostiene che la Storia non si ripete.
Redazione Romboweb – Marzia Cotugno