Mentre in Italia si proclama il secondo sciopero per la sessione estiva, l’Inghilterra ha vissuto l’ondata di scioperi accademici più lunga della sua storia
Fra qualche anno probabilmente si ricorderà questo biennio 2017-2018 come un periodo di numerosi scioperi che il mondo accademico internazionale ha vissuto, che hanno colpito in primo luogo gli studenti. Un esempio ne è l’Inghilterra che,assieme all’Italia, si è ritrovata a vivere sulla propria pelle il blocco didattico da parte dei docenti. Le ragioni delle rispettive mobilitazioni possono essere ricondotte a un attacco agli stipendi per la parte italiana e alle pensioni per la parte inglese, rimanendo quindi nell’ambito del ridimensionamento del reddito. Tuttavia, anche se lo strumento dello sciopero è comune, le modalità con cui questo è stato attuato e le conseguenti reazioni sono state profondamente differenti.
Lo sciopero in Inghilterra
Lo sciopero anglosassone ha avuto inizio lo scorso 22 febbraio 2018 ed è stato indetto dal sindacato University and College Union (UCU), con la motivazione primaria di lottare contro una proposta di riforma partita da Universities UK, l’organo di rappresentanza e coordinamento delle amministrazioni delle università, che avrebbe predisposto il cambiamento del sistema di investimento del fondo pensione utilizzato dal personale docente. Questo cambiamento avrebbe determinato una riduzione sostanziale di reddito portando, in alcuni casi, a perdere diecimila sterline annue per un professore in pensione. Al centro dello scontro tra amministrazioni universitarie e personale docente e non docente c’è l’interpretazione dei dati riguardanti la performance del fondo pensionistico. Le amministrazioni ritengono infatti che il fondo sia in deficit e sia necessario procedere con nuovi metodi di calcolo delle pensioni, mentre il personale ritiene che il dato sia una stima fortemente negativa delle performance future e ritiene possibile che i dati non siano stati interpretati in buona fede. Di fronte a questo scontro lo sciopero si è trascinato per più di un mese e sono state mezzo milione le ore di lezione andate perse nel mese di blocco imposto dagli scioperanti, secondo quanto riportato nel comunicato stampa diffuso dal sindacato, con un danno diretto agli studenti, tanto che alcuni hanno deciso di chiedere rimborsi alle proprie università.
L’azione è tuttavia giunta a un momento di pausa per via della ripresa delle trattazioni, che vedranno la scelta congiunta di una commissione valutatrice da parte di docenti e amministrazioni. A partire dallo scorso 13 aprile quindi le attività accademiche sono tornate alla normalità, permettendo quindi agli studenti inglesi di conseguire la laurea nei tempi previsti.
Cosa significano questi scioperi?
Come precedentemente riportato in un articolo, le motivazioni immediate della proclamazione dello sciopero domestico sono differenti, ma guardando con attenzione emerge un elemento comune, lamentato sia dai docenti inglesi che da quelli italiani: la sottrazione di fondi all’istruzione in genere e alle università in particolare. Questa politica dei tagli ha determinato nel clima accademico dei Paesi considerati, notevoli malumori che, nel corso del tempo, con l’aumento delle mansioni a carico dei docenti e la riduzione del loro numero, hanno portato all’emergere di una vera e propria esasperazione. Nel caso dell’Italia questo fenomeno ha anche bloccato l’accesso alle carriere, con un aumento dell’età media del personale delle università, che procede di pari passo alla sua diminuzione (-6,5%), come si evince da questo rapporto del Miur. Parallelamente le tasse universitarie sono salite, con un +60% negli ultimi 10 anni in Italia, e non è un caso che gli studenti inglesi e italiani paghino tasse universitarie esorbitanti. L’Inghilterra si attesta al primo posto infatti per costo all’interno della classifica europea, terza l’Italia. Gli studenti inglesi devono inoltre far fronte alla questione dell’indebitamento: i costi dell’istruzione li costringono a richiedere veri e propri prestiti, da ripagare dopo la laurea e una volta trovato lavoro. Le università, quindi, hanno dovuto far fronte a un calo degli iscritti e a una riduzione dei fondi provenienti dallo stato, ed anche se con meccanismi differenti per ogni Paese, sono sempre gli studenti ad aver avuto la peggio. Se per ora lo sciopero inglese è fermo e quello italiano stenta ad acquisire forza, sarà solo il tempo a dare ragione ai malumori dei docenti. Non è possibile attaccare per molti anni consecutivi una categoria, sotto il pretesto dell’austerità, senza conseguenze. Specialmente quando questi ricadono direttamente sulle teste degli studenti.
Le università, in quanto luoghi di formazione, rappresentano investimenti sul futuro. Se in momenti di crisi non si investe sulle nuove possibilità che l’istruzione comporta per i singoli e le società si continuerà a non avere i mezzi per interpretare le necessità sociali e porre rimedio agli squilibri che tanto influiscono sul clima politico e d economico del proprio Paese.
Redazione Romboweb – Davide Di Rienzo e Martina De Marco Agrosì