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I ragazzi della d’Annunzio mettono in scena Nemico di Classe di Nigel Williams e Le cognate di Michel Tremblay

14 maggio, due intensi spettacoli per supportare il Teatro Marrucino di Chieti con l’iniziativa Adotta una poltrona realizzata con successo dagli allievi del laboratorio teatrale universitario tenuto dall’attore Vincenzo Giordano.

Quinta C, aula di liceo, cinque ragazzi seduti sui banchi con l’atteggiamento sfrontato tipico di “teppisti”, aspettano l’arrivo dell’insegnante, senza sapere che gli insegnanti – ciechi, incapaci di vedere al di là dei gesti e di comprenderne le motivazioni – hanno deciso di non tenere più alcuna lezione agli “emarginati della scuola”, perché, dice loro un professore, quella scuola è un “luogo di cultura, un posto dove la gente viene a imparare qualcosa. E voi, invece, uscirete da qui né più e né meno che come ci siete entrati. Avrete imparato a fare i duri, a bestemmiare e sfasciare tutto. Dico bene? Io ci rinuncio a voi. Ci rinunciamo tutti. È penoso…Non c’è niente di comico, né di eroico, né di rabbioso, niente. È soltanto penoso. Se fossi in voi, me ne andrei. Via.”

Opera scritta nel 1978 dal drammaturgo inglese Nigel Williams, Nemico di classe racconta con graffiante realismo tinto di ironia tragica i sentimenti, i pensieri celati, le insicurezze di un gruppo di studenti costretti a reinventare la loro scuola spinti dal desiderio di apprendere quel “sapere” che nessun professore ha avuto mai la forza e la pazienza di dar loro, un sapere che non sia un infondere nozioni da libri prestampati ma che aiuti i ragazzi ad affrontare le difficoltà di una vita che non hanno scelto. Così i ragazzi imparano tra loro a confrontarsi, anche, e spesso, con violenza, alla ricerca di  una strada che nessun “adulto” è stato in grado di mostrare loro:

“Sentite. Io non so un cazzo di niente. Io chiedo solo. Continuo a chiedere, chiedere, chiedere e a menare cazzotti su cazzotti e non arrivo da nessuna parte, giusto? Non si arriva mai a niente perché niente ha senso e allora io tiro pugni su pugni su pugni. E poi? Niente. ‘Fanculo tutto. Nessuna risposta. Resto quel coglione senza senso di Iron pieno di inutili domande del cazzo.”

Ogni ragazzo offre ai compagni il “sapere” che possiede, un sapere stentato ma che è suo e che pensa possa essere utile a vivere: il primo ragazzo tenta di impartire una lezione sul sesso, anche se di sesso non se ne intende affatto; il secondo spiega l’importanza di coltivare gerani, perché suo padre, nei gerani, trova il senso di un’esistenza altrimenti vuota; un altro racconta del suo amore per i vetri – per spaccarli, s’intende; Skylight, invece, impartisce una lezione su come cucinare il budino di pane, ma, anche, sui sentimenti, quei sentimenti che Iron, l’ideatore delle lezioni, il ragazzo che più di tutti ricorre a gesti violenti perché più di tutti stenta a trovare il senso in una vita senza affetti e senza direzione, non conosce:

“Si vogliono bene. Sai che cosa significa, Iron? Si piacciono. Come a me piace il Budino di Pane. E a Racks piace il giardinaggio. Piacersi. Prova a ricordare questa parola. E anche se mia madre e mio padre sembrano due tartarughe quando si baciano… beh, non è comunque meglio di due tartarughe vicine che fissano il vuoto? Meglio di tua madre tutta pittata come una maschera, perché lei lo sta ancora cercando un coglione (uno) che se la prenda, la tua mammina che si diverte solo quando può alzare un po’ il gomito. E anche se ci tocca stare su strade piene di merda, perché non ci sono soldi e anche se non ci mandano un cazzo di professore per giorni e giorni, questa è vita lo stesso, no? È meglio che essere morti, per cominciare.”

Così in ognuna delle lezioni emergono i bisogni vitali che si nascondono dietro la durezza di atteggiamenti che appaiono indomabili ad una scuola che, così fatta, è in grado di dare soltanto nozioni vuote lontane dalla vita dei ragazzi: “Le uniche cose che non distruggiamo sono le nostre. E non c’è niente di nostro qui. Non ci avete mai dato niente e quel che ci date ve lo riprendete quando vi pare. E finché ci trattate così noi spacchiamo tutto”.

I ragazzi della d’Annunzio, allievi dell’attore Vincenzo Giordano che tiene da marzo il laboratorio teatrale universitario Memeno audere semper, sono riusciti a mettere in atto la profondità del dolore, della rabbia, e dell’amore inespresso, in uno spettacolo che commuove e lascia l’amaro in bocca, perché la soluzione ch’essi disperatamente cercano non arriverà: ancora una volta, sul finale, Sweetheart, pieno di speranza, chiama a gran voce un insegnante che vede fuori dalla porta, ma l’insegnante non arriva e la scena ritorna esattamente com’era al principio dell’opera, con i ragazzi soli a cercare quel senso delle loro vite che fuori dall’aula non trovano ma che forse proprio all’interno dell’aula, con l’affetto e il supporto reciproco, riusciranno a compensare: “Devono per forza dartela questa mezza possibilità. Non possono stare lì a guardarti marcire…Presto qualcuno verrà a trovarci…Chi può dirlo, potrebbero scaricarci addosso tanto di quel sapere da non riuscire nemmeno più a muoverci. Saremo arrivati alla meta, Iron. Al mondo ci vuole solo pazienza.”

Insieme a Nemico di classe, i ragazzi del laboratorio teatrale hanno messo in scena anche un’altra commedia capace di far riflettere su problemi vivi della società moderna, Le cognate di Michel Tremblay, un classico del teatro canadese, rappresentazione iperbolica della sindrome da  consumismo compulsivo che negli anni ’70, gli anni delle prime rappresentazioni dell’opera, raggiunse il suo apice: la disperazione della protagonista – anche se di protagonista non si può parlare, perché l’opera è corale e ogni donna è protagonista di una propria storia – è al vertice quando, nel finale, si accorge di essere stata derubata dalle “amiche” del milione di bollini vinti con un “concorso per famiglie” che le avrebbero concesso gratis un gran numero di premi (“Dio mio! Dio mio! I miei punti! Non mi resta più niente! Niente! Niente! La mia bella casa nuova! I miei bei mobili! Niente! I miei punti! I miei punti!”). L’azione si svolge infatti tutta all’interno del salone della sua casa, dove ha organizzato un vero e proprio “party” per l’”attaccamento dei bollini”, invitando tutte le donne del vicinato. Dietro la formalità dei rapporti di finta amicizia tra le donne, dietro le loro frivole, convenzionali conversazioni, però, si nascondono anche qui, proprio come dietro gli atteggiamenti sfrontati dei ragazzi di Williams, necessità più profonde, aspirazioni insoddisfatte, sogni irrealizzati, e il bisogno di quell’amore che non hanno ricevuto da relazioni con uomini sbagliati, capaci di trattarle solo come merci, ormai consumate, da gettare via:

“Mi ha buttata via come uno straccio! Basta, è finita, fi-ni-ta! Non ti voglio più vedere! Sei troppo vecchia, ormai, troppo brutta…Non ho più bisogno di te! Quello schifoso non mi ha lasciato un centesimo, dopo quello che ho fatto per lui per dieci anni! Dieci anni per niente! Non so che fine farò! E poi mi tocca anche di star qui a fare finta di nulla! Non posso dire a Linda e a Lise che sono finita! Non mi resta altro che bere, ormai…”

“A quell’epoca ero un’ingenua, e non sapevo quello che mi aspettava! Io, scema, pensavo solo alla Santa Unione del Matrimonio! Quando arrivi a quarant’anni e ti accorgi che non hai niente dietro di te e niente davanti a te, ti viene voglia di piantare lì tutto e ricominciare daccapo! Ma le donne, non lo possono fare…Le donne, sono lì incastrate a vita per la gola, e ci resteranno fino alla fine…”

Il momento del riso è nelle conversazioni fra le donne grottescamente rappresentate, prese da pettegolezzi e convenzioni spicciole, mentre l’autenticità dei loro sentimenti si esprime in pieno nei monologhi che isolano di volta in volta una di loro dal resto della scena. Le studentesse del laboratorio (e i ragazzi adeguatamente travestiti) sono state in grado di interpretare benissimo proprio il contrasto fra la civetteria degli atteggiamenti “da salotto” e il dramma vissuto dalle donne dentro se stesse. La comicità tragica dell’opera raggiunge l’apice quando le nove donne intonano tutte insieme un’ “Ode alla tombola”, eccitandosi e smaniando dal desiderio di una giocata:

“a me mi va la Tombola! A me la Tombola mi fa impazzire! A me niente al mondo piace di più della Tombola! È davvero un peccato che non la si fa più spesso di così! Sarei così felice! Viva i cani di gesso! Viva le pile tascabili! Viva la Tombola!”

Alessia Esposito 

Foto di Walter Recanatese

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