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Inferi terreni, paradisi artificiali e purgatori extracorporei. Il “melodramma psichedelico” di Gaspar Noé.

Psichedelia, sentimenti viscerali, esperienze extracorporee e teorie buddhiste del Libro tibetano dei morti: se vi sembrano tematiche inconciliabili dovreste provare con Enter the Void, “melodramma psichedelico” del cineasta franco-argentino Gaspar Noé, che lo ha scritto e diretto nel 2009.

La storia di Oscar e Linda, fratelli e orfani immersi in una Tokyo allucinata e ostile, è mostrata fin dalle prime sequenze nella sua precarietà: per guadagnare da vivere Oscar fa lo spacciatore e Linda si esibisce nei night club della città.

Il viaggio infernale di Oscar, reso interamente con scene in soggettiva, inizia con una dose di DMT e con un’anticipazione di ciò che sarà, condensata nella sequenza in cui l’amico Alex illustra il percorso dello spirito dal trapasso fino alla successiva rinascita, così com’è espresso nel Bardo Todol, il Libro tibetano dei morti. Poco dopo il ragazzo trova la morte per mano di un agente di polizia: l’allucinazione si fa trascendentale e i movimenti di camera diventano quelli dello spirito del ragazzo, tagliato fuori dall’esistenza e vittima di un’interminabile esperienza extracorporea che lo rende spettatore della vita della sorella.

Voli pindarici, frammenti di ricordi che rendono allo spettatore la misura del forte legame tra Oscar e Linda (“E se poi muori?” – “Ritornerò”), visioni alienanti e scene dalla forte valenza simbolica, come le numerose allusioni all’edipico ritorno nel ventre materno o l’insegna luminosa “SEX, MONEY, POWER” che sembra invocare la Santissima Trinità di una società spietata nel suo materialismo.

Sul piano visivo tutto ciò si traduce in una continua fluttuazione che rende lo spettatore partecipe del percorso spirituale di Oscar, fino alla sua conclusione. Quale? La scena finale nel Love Hotel è piuttosto ambigua: Oscar vivrà una nuova reincarnazione, l’emancipazione dal ciclo delle rinascite raggiungendo il “Puro Amore” oppure la sua esperienza è semplicemente onirica e allucinatoria? Le parole del regista invitano a distaccarsi da una lettura univoca in chiave buddhista ma lasciano aperto il finale ad ogni possibile interpretazione.

Andrea Del Rosario

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