L’eredità politica di Nelson Mandela, dall’African National Congress ai “Black Diamonds”. Un grave vuoto istituzionale da colmare.

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“Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio.” (N. M.)
Si dice spesso che le idee riescano ad esprimere l’essenza di un uomo, poiché è dal pensiero che nasce l’azione. Questa è la rivoluzionaria visione sociale di un uomo, Nelson Mandela, la cui azione ha modellato la storia di un popolo, di una cultura, di uno Stato come il Sudafrica, situato nella punta meridionale del continente africano, a lungo soffocato dall’apartheid, politica di segregazione razziale istituita dal governo di etnia bianca nel secondo dopoguerra e protrattasi sino al 1994.
Mandela, premio Nobel per la pace, ha dedicato la sua intera vita alla lotta contro questo cancro della società civile Africana, aderendo fin dall’inizio alle prime attività di protesta dell’ANC, l’ African National Congress, il più importante partito politico sudafricano di opposizione all’apartheid fondato con il fine di difendere la libertà dei popoli e tutelare i diritti umani.
Alle elezioni generali del 1994 (le prime a suffragio universale) l’ANC ottenne la maggioranza dei seggi e Mandela fu eletto presidente del Sudafrica. Il primo presidente dopo l’apartheid.  
Durante il suo mandato Mandela cercò di combinare elementi desunti dallo scenario socio-politico europeo (guardando soprattutto al modello di governo svedese) assieme allo spirito di identità collettiva e di solidarietà proprio della cultura africana. 
Sebbene vi furono notevoli progressi nel campo dell’istruzione e la nascita di una “classe media nera” fino ad allora assente, l’operato di Mandela è risultato carente da altri notevoli punti di vista.
Tra i punti di debolezza della politica presidenziale di Mandela si ricorda la sostanziale inefficacia di intervento nella lotta e nella campagna di prevenzione contro l’HIV, nonostante l’ideazione, nel 1995, del “National AIDS Plan”, secondo il quale tutti i ministeri avevano il compito di sviluppare programmi in base alla propria area di competenza.
La mancanza di coordinamento nell’intervento e, in modo particolare,  la frammentazione del sistema sanitario dovuta agli effetti residuali ancora gravosi  dell’apartheid, vanificarono lo sforzo del governo e nel 1996 il fallimento del Plan venne reso noto anche dalle statistiche: in media  il numero delle persone contagiate durante l’ultimo anno in carica di Mandela era addirittura raddoppiato dal 7,6% al 14,3%. 
Il vuoto istituzionale più pesante lasciato da Mandela tuttavia è quello che riguarda la mancanza di capacità di gettare le basi per una futura  e solida classe dirigente.
La dimostrazione più eclatante di questa mancanza si verificò con l’elezione del suo successore, il presidente Thabo Mbeki (eletto nel 1999), criticato per l’adozione di una linea troppo morbida verso il regime di Mugabe in Zimbawe, oppure per le sue posizioni “ideologiche” di rifiuto della teoria virale dell’AIDS di un gruppo dissidente di biologi molecolari.
Tuttavia, Mbeki, avvalendosi della collaborazione di personaggi come Tito Mboweni (Banca Centrale) e Trevor Manuel (Finanze), era riuscito ad imprimere al paese una vigorosa spinta verso una nuova crescita socio-economica, seppure dovuta ad una lunga ed aspra politica fiscale
La situazione precipitò drasticamente nel 2009 con l’elezione di Jacob Zumagià noto per essere stato al centro dello scandalo riguardante la spesa di 27 milioni di dollari per la costruzione della sua residenza privata e anche per aver favorito durante il suo mandato presidenziale l’ascesa sociale dei “nuovi ricchi”  denominati, a tal proposito, black diamonds
Questo nuovo volto preoccupante della politica potrebbe forse essere spiegato con il cambiamento delle vedute interne allo stesso partito di Mandela. 
Infatti l’ANC, dopo la vittoriosa resistenza contro il regime dell’apartheid, non è più il partito etnico in cui ha operato e militato Mandela. Esso ha perso questa sua originaria connotazione e, per usare le parole del prof. Mario Di Gregorio (docente di Storia della scienza presso l’ateneo universitario aquilano), è diventato “una sorta di baraccone, abbracciando destra, sinistra e centro, come certi grandi partiti italiani.
Le elezioni amministrative dello scorso agosto 2016 hanno confermato l’ascesa della Democratic Alliance, erede del Partito Democratico, da sempre considerata dalla maggioranza della popolazione di colore come il “partito dei bianchi (sebbene attualmente abbia a capo il trentaseienne nero Mmusi Maimane).
Questa nuova candidatura ha senza dubbio giocato un ruolo di primaria importanza, visto che l’ANC ha mantenuto faticosamente il consenso solo nelle aree agricole e nei piccoli centri, registrando pesanti sconfitte nelle grandi aree metropolitane.
Attualmente la situazione socio-economica sudafricana resta alquanto precaria, con un tasso di criminalità e di disoccupazione piuttosto elevato (50% registrato in alcune zone) , dipendenza serrata dalle esportazioni, in modo particolare dalla Cina e con un debito estero attestato attorno al 36% del PIL.
Si evince quindi che dalla storia del Sudafrica, stato lacerato a lungo da lotte intestine e regimi politici cruenti, emerge la problematica della soppressione culturale operata da partiti che con il popolo non hanno più nulla a che fare.
Nelson Mandela ha tentato di restituire al suo popolo quella dignità a lungo calpestata, lasciando tuttavia un vuoto istituzionale che ancora oggi la politica sudafricana non è stata in grado di colmare.
Giusy Odorisio

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